sabato 2 febbraio 2013

La Garbatella dei miei nonni





Dove oggi c’è l’attuale via Costantino, sul retro dell’ospedale, esisteva una lunga grotta, dove i pastori riparavano le greggi. In tempi di guerra, fu usata come rifugio antiaereo. Dall’attuale via Pomponia Grecina  si estendeva  fino a via di Commodilla, la fattoria Serafini e comprendeva anche l’attuale via Giovannipoli, nonché i giardini delle catacombe. Vi si vendeva il latte appena munto. Secondo i racconti di mia madre, per arrivare nelle stalle, che si trovavano più o meno all’altezza di via Pomponia Grecina, bisognava percorrere un bel tratto di strada sterrata all’interno, superare i cani da guardia e affrontare la mucca. Mia madre era terrorizzata dall’animale e la cosa diventava motivo di scherno da parte della Sora Rachele, colei che gestiva la fattoria.
Vicino al convento delle suore di clausura, c’era una trattoria, dove oggi sorge l’hotel Derby, gestita dal “sor Venceslao” che vendeva anche vino sfuso.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale fu un vero colpo per gli italiani e per i miei nonni. Le tessere annonarie, con le quali si potevano acquistare pochissime razioni, non bastavano per sfamare tutta la famiglia. Uno sfilatino a testa era la dose di pane giornaliera.
Si dovevano fare file immense di ore e ore, al freddo o sotto il sole cocente, per acquistare con la tessera un po’ di pane o di qualsiasi altro genere, nella speranza di riuscire ad arrivare in tempo, prima che la scorta finisse, cosa che succedeva spesso. Mi è capitata tra le mani, la foto di un’interminabile fila che andava dal Palladium, fin verso la tabaccheria Scialanga, per riuscire ad avere un sacchetto di sale.
Mia nonna dovette ingegnarsi, come tutte le madri di famiglia del quartiere. Quando la fame divenne davvero troppa, tutto ciò che era commestibile veniva cucinato, fossero anche le bucce dei piselli o quelle delle fave in improponibili zuppe, difficili da ingoiare. Mio nonno andava su tutte le furie, e una volta rovesciò il piatto dalla disperazione e dalla rabbia, verso chi, li aveva portati a dover vivere in quelle condizioni.




Come la maggior parte dei romani, anche i miei nonni, allestirono un orto di guerra. In un piccolo appezzamento di terra, non utilizzato e di proprietà del comune, insieme ad una fila d’altri, sul retro della Caciara, nei pressi dell’attuale via Mancinghi Strozzi. Nonno, non conosceva le tecniche di coltivazione, lui era tipografo e lavorava al Poligrafico di Stato, di campagna era digiuno. Fu aiutato però dal sor Pietro che lavorava alla Caciara. Gli insegnò a fare i solchi per l’irrigazione e come concimare con i rifiuti macerati. Mamma, tutte le mattine, prima di andare a scuola, riempiva due tanniche vuote della benzina dei militari, da venti litri d’acqua, ed arrampicandosi sui gradini fatti dal nonno, scavati nella terra, innaffiava l’orto. Poi a digiuno, perché non c’era nulla da mangiare, partiva per la scuola, con ai piedi zoccoli di legno, ai quali nonno aveva attaccato una striscia di caucciù, rimediato da quello che veniva gettato, ormai usurato, dalle rotative del Poligrafico. I calzini erano stati fatti da lei ai ferri, riciclando il cotone di una coperta. La scuola di avviamento professionale a tipo industriale, che frequentava, si trovava ai primi piani dell’Albergo Rosso.
Dopo tanta fatica nel curare l’orto, una volta, mio nonno, si ritrovò tutti i broccoli tagliati, immagino la rabbia e la disperazione che dovettero assalirlo. La misera era di tutti e la fame anche. C’era, chi non si faceva scrupoli per la propria sopravvivenza a discapito di quella degli altri.
Nonna cominciò a privarsi del cibo per sfamare i suoi figli. Nel 1941, quando nacque l’ultimo figlio, pesava soltanto 37 chili ed era alta un metro e sessanta.
Aveva un solo vestito, che continuava a stringere nel mezzo, perché diventava largo a vista d’occhio.
Anche lavare i panni era diventato un problema, il sapone era introvabile, si usava una specie di creta e la soda, quando si trovava, con tanto olio di gomito. Immaginiamo quanti panni doveva lavare con sette persone in casa. L’acqua corrente e il gas  non c’erano, le condutture erano state distrutte dai bombardamenti e l’acqua bisognava andarla a prendere qualche chilometro lontano, in una pozza naturale che sgorgava dal terreno. Il compito, veniva svolto a turno dai figli, che armati di fiaschi di vetro vuoti e di una carriola, facevano ore di fila per riempire, con un filo d’acqua tutti i fiaschi. A volte rientrando, qualcuno si rompeva nel tragitto ed erano sfuriate di mia nonna, perché l’acqua e i fiaschi, in quel periodo erano preziosissimi.
Per generi di prima necessità, qualche volta, i miei nonni, erano costretti a ricorrere alla borsa nera, quella pratica nefanda, con la quale, la gente senza scrupoli si arricchisce in tempi di guerra. La gente affamata, impegnava qualche misero avere per acquistare magari un litro d’olio a peso d’oro.
Un giorno, furono rubate alcune forme di pecorino dal deposito dalla Locatelli. I tedeschi, in cerca del colpevole, trovarono alcune forme di formaggio nascoste nell’orto di mio nonno. I soldati, coi mitra spianati non andando troppo per il sottile, quasi lo catturarono. Ma il sor Pietro, spiegò loro che non era lui il colpevole del furto, poiché era un dipendente della Caciara fu creduto e mio nonno la scampò.
Durante il fascismo, era divenuto obbligatorio, avere la tessera del partito, pena il licenziamento. Nonno antifascista e d’idee socialiste, si rifiutò sempre. Fu fortunato, perché dal poligrafico di Stato, passò alle dipendenze dell’ingegner Staderini, il quale antifascista anche lui, non gli chiese mai la tessera. Sarebbe stato un dramma perdere il lavoro per motivi politici, con quattro figli a carico. Quando la Villetta passò nelle mani dei partigiani e la bandiera rossa fu issata sull’asta, mio nonno immortalò il momento con una foto storica in bianco e nero che è stata pubblicata da me in questo blog in un vecchio post.
Con Roma distrutta, senza mezzi pubblici circolanti, nonno decise di acquistare un camioncino, per arrotondare le entrare, faceva il trasporto delle persone, fino al Colosseo, facendosi pagare il biglietto. Purtroppo, dati i mezzi molto scarsi che aveva potuto investire, l’acquisto fu più un danno. Erano più le volte che il camioncino si fermava a metà percorso, di quelle che riusciva a completarlo. In questo caso, mio nonno era costretto a restituire il prezzo del biglietto, tra i mugugni dei passeggeri che avevano perso del tempo prezioso.
Nella primavera del 1944 alla stazione Ostiense, più volte bombardata dagli aerei americani – le famose fortezze volanti – si trovarono dei treni semidistrutti con i portelli scorrevoli spalancati, stracolmi di ogni sorta di cibo. La stazione era ridotta in macerie.
Molti abitanti della Garbatella, col passaparola, arrivarono e saccheggiarono quei vagoni, colmi di zucchero, farina e generi alimentari che a Roma non giungevano quasi più, dopo i tanti bombardamenti alleati, che avevano distrutto le linee ferroviarie. Fu proprio nello stesso periodo infatti, che in mancanza di pane avvenne l’assalto ai forni al Ponte di Ferro.
Mio nonno saputo del sabotaggio avvenuto alla stazione Ostiense, come tutti i romani, allampanato dalla fame, entrò in un vagone e prese un sacchetto di zucchero ma un soldato tedesco, sentendo dei rumori, col fucile spianato si mosse rapido per catturare il colpevole. Mio nonno, sgattaiolando furtivamente dal vagone, riuscì a nascondersi in un canneto lungo la ferrovia. Il tedesco non mollava e lui rimase molte ore immobile tra le canne, alla fine il soldato abbandonò la caccia e mio nonno  si salvò la vita. Nel frattempo, anche all’orecchio di mia nonna giunse la notizia che alla stazione Ostiense, c’erano sacchi di ogni ben di Dio. Presa anche lei dalla disperazione e dalla fame, s’avviò assieme agli altri, per cercare di portare a casa qualcosa.
Cercò di caricarsi sulle spalle, un sacco da 50 chili di farina, era così esile e denutrita, che non facendocela, fu costretta ad aprirlo e svuotarlo in parte. Poi se lo mise in testa. Tra sudore e lacrime, per il grande senso di colpa di aver commesso un furto, lei così profondamente onesta, piangeva disperata e nel farlo, la farina le si impastava sul volto. Camminava svelta per allontanarsi dal luogo del misfatto, col pericolo di essere fucilata dai tedeschi, com’era successo alle donne martiri, nell’assalto al forno del Ponte di Ferro. Correva e mormorava, quasi confessandosi col Padre Eterno in persona “Sono una Ladra!” Il volto bianco dal quale le lacrime rotolavano nella farina, la facevano apparire quasi un “patetico pagliaccio”, definizione che le ha dato mia madre.

Il giorno dei bombardamenti alla Garbatella, quel fatidico 7 marzo del 1944, mia nonna aveva appuntamento alla maternità nell’Albergo Bianco, per il controllo pediatrico all’ultimo nato. In quel frangente, venivano distribuiti dopo la visita biscotti e latte per l’alimentazione del bambino. Quel mattino però il ragazzino aveva la febbre alta, e lei si disperava per aver mancato all’appuntamento e persa anche l’occasione di avere qualche razione in più di cibo. Dopo il bombardamento e la tragedia della Maternità, dove persero la vita bambini e adulti, mia nonna ripensava spesso al mancato appuntamento e lo considerò un miracolo ringraziando sempre Dio per averli risparmiati.
Durante i bombardamenti all’Ostiense, mia madre e sua sorella più grande si trovarono a dover affrontare una situazione tragica e difficile. S’erano avviate di buon mattino verso Via Appia, nei pressi  della chiesa di S. Maria Ausiliatrice, a piedi. Mio nonno aveva saputo, che c’era un conoscente che vendeva la pasta a borsa nera. Le due ragazzine, ci misero parecchio a tornare indietro, era quasi sera quando arrivarono nei pressi dell’Ostiense. Quella fu la loro salvezza. Non sapevano come avvertire i familiari, né se fossero ancora in vita a causa del bombardamento.
Man mano che s’avvicinavano, sentivano voci che annunciavano la distruzione del quartiere. Erano impaurite e disperate, mia madre aveva 13 anni e sua sorella 15. Procedevano a rilento. Arrivate nei pressi dell’Orto Botanico, videro in lontananza una figura maschile che si disperava seduta su un antico capitello. Piangeva con le mani nel capelli, parlava da solo. Le due ragazze in un primo momento, pensarono a chissà cosa fosse successo a quel povero cristo, che si disperava così tanto, immaginarono che avesse perso qualcuno della famiglia. Pian piano che s’avvicinavano, però riconobbero mio nonno. Quando le vide arrivare, quasi impazzì, le aveva ritrovate sane e salve ma le aveva immaginate morte e sepolte sotto le macerie.
Il rientro fu difficile e doloroso. Edifici su via Pellegrino Matteucci erano interamente crollati. Da sotto le macerie si sentivano i lamenti dei sepolti vivi.

Il 24 marzo del 1944 ci fu l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Lo scoppio delle mine, fatte saltare dai tedeschi, per provocare il crollo delle grotte e occultare i cadaveri, fu udito anche alla Garbatella. Avvenne in successione. La gente si chiedeva allarmata quale ne fosse il motivo. Qualche giorno dopo, mio zio, tornò a casa e concitatamente raccontò che girava voce di un eccidio in cui erano state fucilate dai tedeschi, moltissime persone. Nei pressi del luogo, s’era fatta una lunga fila di gente, che andava a verificare se la notizia fosse vera. Anche mia madre con la famiglia, si recò sul posto. Non avrebbe però, mai immaginato quello che i suoi occhi avrebbero dovuto vedere.
L’entrata della grotta, era rimasta aperta per metà, s’intravedevano numerosi corpi, legati gli uni altri altri, e velati dai gas di decomposizione. L’odore di morte era insopportabile. Quelle immagini terrificanti, sono rimaste scolpite nella sua memoria.

Poi la guerra finì. Nei primi anni cinquanta, mio nonno decise di mettersi in proprio ed aprire la sua tipografia. Prese in affitto i locali di Via Pullino al civico n. 1. Un seminterrato, dove allestì la nuova attività, con macchine comperate usate e con grandissimi sacrifici di tutta la famiglia.
Furono anni difficili, prima che l’attività cominciasse a rendere. Mia madre e le sorelle, andavano ad acquistare le scarpe a rate da Latessa, il negozio di scarpe che si trovava dove oggi c’è, la pizzeria Il Panonto. Mia madre fu assunta alla Banca D’Italia,  alla verifica della stampa delle banconote, appena uscite dalla rotativa. Mentre i figli maschi, aiutavano mio nonno in tipografia, e l’altra sorella, quella più grande divenne cassiera da Cantini, un grande negozio di ferramenta, al centro di Roma. Nonostante le varie entrate in famiglia, la situazione economica stentava a decollare, perché la maggior parte veniva assorbita dalla nuova attività di mio nonno.
In quel periodo, l’appartamento al lotto 11, s’era fatto troppo piccolo per sette persone. La situazione era diventata difficile. Dopo aver atteso per un po’ di tempo, l’intervento di alcune sedicenti conoscenze del nonno, mia nonna, presa dallo sconforto, decise di fare di testa sua.
Scrisse una lettera documentata, al fratello dell’Ingegner Lombardi, uno dei piani alti dell’Iacp, molto legato alla Democrazia Cristiana e fratello di quel padre Lombardi che allora, tuonava alla radio contro il pericolo comunista.
Mia nonna, credente, fece leva sul sentimento cristiano, sul senso del pudore. Di come una famiglia cattolica, dovesse vivere, con due maschi e tre femmine, stretti in due stanze, di come lei fosse costretta per questo, a dormire separata dal marito per non farli dormire nella stessa stanza. Allegò anche tutta una documentazione medica sulla salute cagionevole di uno di loro.
Non ci sperava molto, mia nonna, in una risposta, tanto meno che il suo desiderio, venisse esaudito.
Invece poco dopo, le giunse una lettera, firmata proprio dall’ingegner Lombardi in persona, che le comunicava l’assegnazione di un nuovo appartamento di ottanta metri quadri al nuovo lotto 62, in via Augusto Albini.
In quell’appartamento, i miei nonni, vissero fino alla fine della loro vita.
Mia madre, invece, vi restò soltanto un anno, perché nel frattempo, conobbe mio padre e dopo il matrimonio, andò a vivere nell’appartamento della famiglia di lui, al lotto otto.
Il nonno paterno, dipendente dell’allora Senfer, la società delle ferrovie statali, era macchinista.
Ottenuto il trasferimento a Roma, fece domanda all’Iacp, in quando dipendente della società delle ferrovie statali, aveva un canale preferenziale nell’ottenere un appartamento e anche nella sua scelta.
Nel 1926, gli fu assegnato uno degli appartamenti più grandi al lotto otto, appena costruito. Si trovava al quinto piano, uno dei pochi con il balcone. Composto di tre vani, con cucinino e anticucina. Ho ancora il contratto che lui stipulò con l’Iacp. Dovette versare la somma di dieci lire per vano, da pagare a rate, mia nonna, dovette controfirmare come garante, in caso di un decesso di lui.
L'appartamento dove io sono nata e cresciuta fino all'età di sei anni e che Lottotto conosce bene.
Tutte e due le famiglie dei miei genitori, approdarono alla Garbatella, tra il 1926 quella paterna e il 1934 quella materna.
I nonni materni, nati tutti e due al quartiere S. Giovanni, dopo il matrimonio, per un po’, vissero in un piccolo appartamento in subaffitto, in piazza Tuscolo. Gli affitti erano però veramente alti, non ce la facevano a pagare. Fecero domanda all’allora Iacp, per un appartamento popolare.
Fu loro assegnato alle “Case Rapide” nel 1934. Mia madre allora aveva appena 5 anni.
Il complesso però, non era alla Garbatella, inizialmente abitavano confinanti con l’Istituto S. Michele che a quel tempo era un collegio, tra Garbatella e Tor Marancia.
La scuola elementare frequentata da tutti i ragazzini era la Michele Bianchi, oggi Cesare Battisti. Mia madre ricorda i suoi primi anni alle elementari, quando assieme alla sorella più grande ed altre ragazzine, s’incamminavano per Via delle Sette Chiese per recarsi a scuola. Si facevano compagnia recitando le poesie imparate in classe. Percorrevano Via delle Sette Chiese. Lungo la strada, dietro una fratta di biancospino, c’erano dei campi dove l’aratro in autunno, tempo in cui iniziavano le scuole, aveva lasciato solchi profondi nel terreno, mettendo in evidenza, il colore bruno della terra. Le ragazzine, tutte in gruppo,  passavano di fronte alla trattoria L’Ardito, per poi arrivare alla Chiesoletta e proseguire per via Giacomo Rho, di fianco a S. Francesco Saverio. Tutti i giorni, vi sostava  un vecchietto che vendeva dolciumi, sempre circondato dai ragazzini che poi frettolosamente entravano nel grande edificio scolastico. Da quel vecchietto, mia madre, comperava caramelle al posto della pizza, di nascosto, spendendo quelle poche monete  che sua madre le aveva dato .
Mia nonna mi raccontava sempre della grande solidarietà che aveva trovato tra i vicini che abitavano alle Case Rapide. Persone semplici,  famiglie d’operai, come i nonni. Le donne scendevano in cortile per stendere i panni negli stenditoi comuni, era severamente vietato farlo ai balconi e alle finestre. D’estate cucivano chiacchierando insieme, raccontandosi le pene e i problemi della vita d’allora. Se pioveva e qualcuna era assente, le venivano ritirati i panni e consegnati piegati. Si aiutavano a vicenda nei momenti del bisogno. Lei, ha sempre rimpianto il clima d’amicizia e solidarietà che aveva trovato lì.
Qualche anno dopo, quando furono smantellate le case rapide, perché reputate costruzioni provvisorie, fu assegnato ai miei nonni un appartamento al lotto 11, sull’allora  via dei Cistercensi, intitolata ai monaci dell’Abbazia dei frati Trappisti sulla via Laurentina. All’inizio degli anni cinquanta, divenne l’attuale via Alessandra Macinghi Strozzi.
Inizialmente alcuni appartamenti del lotto, una parte alla IV palazzina, erano stati strutturati con una metratura più grande degli altri e destinati come alloggi per i sacerdoti, della futura parrocchia, progettata ma non ancora costruita.
Dopo l’inaugurazione della nuova Parrocchia, S. Francesco Saverio, nel 1933, i sacerdoti si trasferirono nella chiesa.
Gli appartamenti loro assegnati al lotto 11, furono divisi in due e destinati a nuove famiglie. Uno di questi fu destinato al mio nonno materno.
Mio nonno, a sue spese, completò il bagno che aveva in dotazione solo il water, con i servizi mancanti e per questo fu multato molti anni dopo, dall’allora Iacp, per aver causato un danno all’appartamento originario.
L’aspetto di questa parte della Garbatella, la zona che circondava l’attuale piazza delle Sette Chiese, in quel periodo, era molto diverso da quello attuale.
Di fronte al complesso del lotto 11, che era  l’ultimo dopo la piazza, c’era un grande appezzamento di terreno, coltivato ad ortaggi, con alberi da frutta, al centro un casale.  Il  proprietario era Camillo. La tenuta sorgeva, dove oggi c’è la Scuola Vivaldi e l’Ospedale CTO.
Sul lato sinistro, confinante con l’orto di Camillo,  si trovava la tenuta di Mercuri. Un appezzamento di terreno che oltre alle coltivazioni, aveva anche un piccolo allevamento di cavalli da tiro, allora usati per il trasporto agricolo.






2 commenti:

  1. racconto molto commovente,per me che ho conosciuto e vissuto la garbatella con amici di comitiva,anche essendo nato nella borgata tormarancia,chiamata shangai,sono nato e vissuto nelle baracche sino al"età di 5 anni,e mi ricordo le case rapide,la mia nuova casa era dove sono rimaste le ultime case rapide,grazie

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    1. Ma scusa l'intrusione, i lotti di tormarancia non sono comunque sempre le case rapide?

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