giovedì 4 aprile 2013

Dado




Vorrei fare una carrellata di persone che sono nate, o cresciute o comunque passate dal nostro quartiere e che hanno poi avuto modo di diventare famosi, per un motivo o per un altro, iniziamo da DADO, dove ho ripreso un vecchio post del ex-blog su splinder, spero vi piaccia.




Nato nel quartiere Ostiense, scuole medie alla Garbatella, sin dagli anni del liceo artistico Pellegrini seguì la sua vocazione di attore comico. «A diciotto anni, cominciai a lavorare al "Talent Scout" (oggi The Place) con il gruppo musicale "Le Pastine in Brothers". è nato così il mio nome d' arte: per dare sapore alle Pastine serviva un Dado», spiega l' attore, che nel ' 97 ebbe la consacrazione con Teo Mammucari. «Mi dava cinque minuti nel suo spettacolo, ma un giorno rimase bloccato nel traffico e io lo sostituii per due ore, tra gli applausi del pubblico: fu la mia fortuna». Gli si aprirono così le vie del cabaret. Fatale fu il provino con quelli di "Zelig" («ho fatto quattro bellissime stagioni»), spesso ospite di Carlo Conti, da "I raccomandati" fino all' ultimo Capodanno di RaiUno. Ma, come dimostra il suo spettacolo "Onesto ma non troppo" (fino al 20 gennaio all' Olimpico, poi al Teatro Manfredi di Ostia), il suo grande amore è il teatro-canzone di Gaber. Dado, a modo suo, è un moralista: si interroga sulle piccole e grandi questioni della vita quotidiana, soprattutto quella dei romani. Chitarra in mano, sostenuto dalla sua band (quattro componenti, tra cui la sassofonista Cristiana Polegri) e dalla regia di Augusto Fornari, Dado delizia il suo pubblico alternando canzoni allegre ad amari monologhi. Dado, come nasce la sua passione per il teatro-canzone? «La prima volta che vidi Gaber fu all' Eliseo: avevo sedici anni. Il suo Teatro Canzone mi entusiasmò, andai in camerino, gli parlai. Gaber lo rividi anni dopo al Nazionale e infine all' Olimpico nel 2000 (dove portò il profetico Destra e Sinistra). Avevo appena vinto il concorso "Riso in Italy" e a Gaber ricordai che stavo in tv con "Macao" (di Boncompagni), gli dissi che avrei lasciato tutto per seguirlo in tournée, facendo il tuttofare. 


Lui sorrise, disse che non vedeva la tv, che aveva un suo staff. Fu una bella chiacchierata e mi incoraggiò». Lei costruisce lo spettacolo tra onestà e disonestà. Si ispira alla vita dei romani? «Vivo a Roma e vedo soprattutto un certo modo di vivere dei cittadini. Dalla burocrazia ai semafori rossi non rispettati. La matrice dello spettacolo è nel rapporto onestà-disonestà. è il filo conduttore che lega tutti i capitoli, a partire dall' amore: i buoni propositi amorosi sono onesti, ma poi non diciamo abbastanza "no". E nei tatuaggi c' è il riflesso di una certa ipocrisia di tanti giovani innamorati». è impegnativo per un comico seguire le orme di Gaber? «Certo. Le tematiche di Gaber erano quelle di una persona che si relazionava ad un autore come Luporini. Il suo Teatro canzone è più impegnato, più profondo del mio, ma onestamente in certi momenti è più noioso». Lei vuole smuovere le coscienze con la comicità? «Il compito dell' artista è quello di smuovere le coscienze. Con argomenti sentiti da tutti. Io parto da cose quotidiane, dalla difficoltà di approccio con le donne alla Finanziaria. Parlo del confine esile tra l' onestà e la disonestà. Racconto l' odissea d' un uomo che va in circoscrizione per rifarsi i documenti rubatigli (mi capitò quando avevo 18 anni: giuro che all' ufficio informazioni della mia Circoscrizione c' era un sordomuto che dava i numeretti). Io seguo l' esempio di Gaber, Guccini, De André». Lei usa molto la mimica. Non rischia di fare il clown? «è da quando sono piccolo che faccio smorfie allo specchio, cerco espressioni estremistiche, da clown. Gaber aveva una grande maschera. Io porto a teatro anche il pubblico della tv, così alla fine ripropongo il personaggio che mi ha dato la notorietà a Zelig: il cantautore leopardato che arrotolandosi le maniche fa dei "centoni": canzoni con esiti diversi dall' originale, con accenti romaneschi». Anche in Paolo Rossi o Moni Ovadia si ritrovano tracce di Gaber... «Rossi si ispira a Gaber, fa il teatro canzone, ma mantiene una sua personalità. Ovadia è interessante, ma non lo conosco abbastanza. In verità, Gaber era figlio del teatro di denuncia francese (cantava Brassens) e io sono fiero di aver raccolto il suo linguaggio, di usare la stessa "punteggiatura" gaberiana: così almeno dice Paolo Del Bon, della Fondazione Gaber. Rispettare il teatro-canzone gaberiano significa capire che le canzoni che non sono canzoni e basta, così come certi monologhi non vivrebbero senza le canzoni»


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